Casa, dolce casa!

 

Torno a casa dopo tre giorni a Torino. Ogni tanto ho deciso che me ne vado, faccio uno stacco, mi ricarico le pile, sennò non reggo. La casa è deserta e silenziosa, come quasi mai accade, mi infonde un senso di pace che si accorda perfettamente con il mio umore.

Mi sento leggera, riposata. La casa vuota, in penombra mi piace, è insolita, è una rottura con il quotidiano, con quel che ti aspetti, è quasi solenne, come una chiesa o un tempio.

Mi aggiro furtiva, facendo il minor rumore possibile, come a non voler rompere questo incanto. Ho tempo di farmi una doccia e sistemare le mie cose, prepararmi all’atterraggio che mi aspetta. Atterrare con calma è quello che ci vuole, calarsi lentamente nel tran tran quotidiano, riprendere il fiato prima di rientrare nel tunnel delle cose da fare e delle cose da dire. Le cose da dire mi esasperano. Non mi riferisco alle chiacchiere che si fanno volentieri o al parlare di quello che desidero veramente, le cose da dire è quello che va detto sempre. Non avevo idea che si dovesse dire tante cose, sono sommersa dalle mie parole.

A mio figlio devo dire ininterrottamente le stesse cose tutti giorni, ma non perché non capisca, e nemmeno perché ci tenga particolarmente, è che fa parte del gioco, i bambini poi sembrano dimenticarsi che la mattina si deve fare colazione, andare in bagno, lavarsi i denti, vestirsi e la sera lo stesso, mangiare, lavarsi spogliarsi. E tutti i giorni continuo a dire e dire, fino all’ultimo minuto, quando deve infine infilarsi il pigiama. A volte, ormai sopraffatta da questo dovere di dire e dire, quando è già nel letto con la luce spenta, non gli dico buonanotte, gli dico dormi.

 

Le cose da dire a mio marito, perché se non glie le dico, lui poi se la prende e mi dice ma perché non me lo hai detto? Le cose da dire alle altre mamme, alle maestre, alla signora che viene a pulire la casa, ai parenti, ai vicini. Ma stavolta non c‘è fretta, posso prendermi il tempo di atterrare, godermi il silenzio e il non dovere parole a nessuno.

Entro nel bagno pregustandomi una doccia calda e lunga, un prendermi cura di me che capita raramente. Il bagno è il mio regno, o meglio sarebbe il mio regno se non dovessi condividerlo altre due creature di un’altra razza, per niente devote al culto del bagno. Il bagno è un luogo sacro e misterioso, dove una donna può rifugiarsi in santa pace a svolgere delle attività assolutamente insulse, come depilarsi le sopracciglia o andare a caccia di rughe scovandole nei posti più reconditi, con sofisticati specchi a lenti deformanti. Ci divertiamo in un modo cretino è vero, ma insomma, anche nel passare le serate alla televisione o a giocare ai videogiochi non ci trovo niente di straordinario. A volte, come un’erinni, scaccio a urli gli invasori dal mio tempio, brandendo il rullo per la ceretta, con la faccia trasfigurata dalla rabbia a tal punto che loro scappano terrorizzati, e io mio godo la meritata pace. Oggi non devo nemmeno combattere. È tutto mio per un’ora almeno.

Appena chiudo la porta,vedo quello che questa nasconde, la visione del cesto dei panni stracolmo si manifesta all’occhio meravigliato della mia consapevolezza. Io e lui per un momento siamo sospesi nel vuoto e ci fronteggiamo, incerti ancora sulla piega che prenderà questo incontro. Occhi negli occhi. Questo straniero mi è sconosciuto, non facciamo parte dello stesso mondo. Io viaggio, lavoro, mi occupo solo di me stessa, parlo quando ho voglia di parlare, nella mia vita LUI non esiste, non è emotivamente significativo, è solo un oggetto. Eppure dentro di me qualcosa sobbalza. Siamo due entità che viaggiano su binari paralleli senza mai incrociarsi, non abbiamo niente da scambiarci. Lui però continua a fissarmi, come aspettando che mi torni la memoria, serio e appena appena beffardo.

E improvvisamente il velo si squarcia e la mia pace finisce, perché attraverso quello squarcio, io ricordo la relazione che abbiamo e vedo il mio destino legato a lui con una lunga e pesante catena. Intorno a lui, dentro e fuori, pensando sempre a lui. Sento lo sgomento che arriva e mi inginocchia. Sì è proprio sgomento, pensando a me che tutti i giorni penso al cesto dei panni, ci butto roba, ce la tolgo, la lavo, la stendo, la piego, la metto a stirare (e non la stiro, questo no, questo non posso) e poi ce la rimetto e così, giorno dopo giorno. Tutti i santi giorni. È sgomento, è disperazione, lo so che le altre di solito non si lamentano, alcune nemmeno ci pensano fanno e basta, ma io non ce la faccio proprio, io non ne posso più. Non è la fatica in se, meno male che c’è la lavatrice, grazie a dio il progresso a qualcosa è servito, è l’incubo quotidiano di fare tutti i giorni la stessa cosa, di aver integrato nella mia vita un pensiero costante, i panni. Cerco di ribellarmi, no non lo farò, non mi farò incatenare di nuovo alla cesta dei panni, perché una vita così non è degna di essere chiamata tale, ma so che è tutto inutile.

 

Ecco sono tornata a casa e l’effetto benefico della fuga è già svanito.  La belva dentro di me si acquatta in attesa della prima occasione per saltare alla gola a qualcuno. [continua…]

 

AVA PESCI

 


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Commenti: 1
  • #1

    Marzia (sabato, 22 marzo 2014 23:01)

    Ma quanto è veroooo!!!! :-)